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giovedì 2 settembre 2010

Capitolo 5: considerazioni e avvenimenti storici nell'area Tordino - Vomano

Ringrazio ancora una volta l'amico rosetano Franco Sbrolla che ci invia questo quinto articolo, molto interessante.

Un post per capire meglio, a prescindere dal colore politico dell'Amministrazione in carica, come a parole si sostengano delle posizioni ma con i fatti ci si comporti diversamente...

Grazie di cuore!
Luca

Capitolo 5: Da“L’Abruzzo nel mio cuore” a “L’Oceano ci chiama” ed ai “Caduti del Mare”

Quei pescatori di un tempo, vissuti umilmente, hanno potuto almeno appagare gli occhi e la mente con l’ineguagliabile paesaggio, allora inalterato, e diventato poi, dal fiume Tordino al torrente Borsacchio, una Riserva naturale.

E sono stati spesso ricordati da scrittori, registi e artisti. Tra i primi la giornalista napoletana Beatrice Testa, che durante la fanciullezza aveva frequentato la casa dei nonni, lo stupendo villino Grue, ornato dall’arte castellana, e devastato in seguito dal cemento come altre ville patrizie.

Nel 1929 pubblicò “L’Abruzzo nel mio cuore”, arricchito da 40 xilografie originali dell’artista Carlo D’Aloisio da Vasto, e dedicò gli ultimi due capitoli ai ricordi rosetani. Mi è sembrato quindi opportuno, essendo il libro ormai introvabile, trascrivere alcune delle tante bellissime frasi:

“Rosburgo: …presso la riva del mare, un piccolo gruppo di capanne basse e tenebrose, impastate di creta e di paglia, con le finestre opache e piene di sonno, con gli usci sconnessi e cigolanti, così piccini che, per varcarli, bisognava piegarsi in due. E queste capanne, che nel dialetto del luogo si chiamavano pinciare parevano, viste dall’alto, tante pecorelle dolci e brune, che si fossero messe a brucar l’erba, ai piedi della collina gialla di tufo, e che poi si fossero addormentate alla nenia lenta e maliosa del mare. Chi potrebbe dire come le pinciare scomparvero?

Certo esse caddero ad una ad una docili e rassegnate e s’elevarono al loro posto innumerevoli villini umili e fastosi, bianchi e colorati; ma tutti, dal primo all’ultimo, ebbero alle porte un ciuffo di rose o un albero di oleandri vermigli…

Rosburgo, che è forse la più giovane tra le spiagge dell’Adriatico abruzzese, ha quello che molte città più grandi e più celebri non hanno: un artista che l’ama e l’esalta nella bellezza e nella poesia del colore, Pasquale Celommi, pittore dalla rude e delicata anima, in cui la fierezza del nativo Abruzzo e la soavità dell’arte si compongono in squisita armonia...Ma Pasquale Celommi adora il mare in tutti i momenti della giornata, in tutte le sfumature delle tinte e delle trasparenze, in tutta la forte e profonda poesia del suo insonne e perpetuo ondeggiare. La luce che gioca tra i flutti su la riva, lo rapisce ed egli s’indugia a renderne tutta la grazia leggera.

Così in Pesca abbondante il sole che sorge lontano, tra acqua e cielo, ferisce orizzontalmente il mare fino alla sponda, fin dove un velo sottilissimo d’acqua translucente si distende e palpita su la sabbia d’oro, che si scorge in trasparenza, non liscia e compatta, ma appena ondulata dal ritmico, alterno movimento dei flutti. E di sole avvampano le vele purpuree mezzo ammainate e i visi delle donne e le collane di oro. In cielo passano tutte le divine sfumature dell’alba. La pesca della sciabica è invece tutta penetrata della inesprimibile malinconia del crepuscolo adriatico che è così lungo e dolce e quieto su lo sconfinato deserto del mare senza terra né vela…”

“Roseto d’Abruzzo: Ti sei vestito di grigio e di vento per venirmi incontro stamane, o mare strano e bellissimo, che sorridesti ai sogni della mia puerizia lontana… Ed ad una ad una sono passate davanti ai miei occhi velati le piccole bianche stazioni adriatiche dai nomi così dolci ogni volta al venire ma così tristi al partire, Montesilvano, Silvi, Atri… Mi affaccio dal finestrino. Il vento autunnale mi getta in viso rabbiosamente nubi di fumo e odore di carbone. Ma non importa... Vento, fumo, polvere, lacrime, palpiti disordinati del cuore. Sul mare, in fondo in fondo, scivolano le tue paranze, Rosburgo. Se si accostassero un poco, io ne riconoscerei le vele ad una ad una: il Sacramento, la Mezzaluna, la Stella… Adesso le vele cominciano ad avvicinarsi alla riva. Quante volte le vedemmo tornare così, gonfie di vento e lente, trascinandosi dietro, nel tremolare dell’acqua, il riflesso dei fiammeggianti colori? Spuntavano ad una ad una di dietro lo spigolo della villa accanto. Sarà la gialla? Sarà la rossa? Quella col sole? Quella con la Madonna?...

E la processione fastosa e solenne empiva tutta l’azzurra distesa del mare ondeggiante. Qua la raggiera di un ostensorio, là il profilo d’un fantastico mostro, più vicino, proprio su la sponda…

Poi d’un tratto, un fischio, un rombo, un sussulto. Il treno, piccino e veloce nella lontananza, girava sul ponte Vomano…

E Rosburgo non è più Rosburgo. Su la rovina dei vecchi uomini e delle vecchie case è tutta una nuova fiorita. Così, morto Pasquale Celommi, il pittore delle belle marine, un giovane artista, Giuseppe Di Blasio, seguendo le orme profonde e gloriose di Basilio Cascella da Pescara, attende ad ornare il paese di belle ceramiche. E noi… non siamo più quelli di allora.
ll tempo è passato… Per noi la parentesi è forse chiusa per sempre. Rosburgo si chiama Roseto. Passano gli anni e non ci si viene. O ci si passa senza fermarsi col treno che corre e con gli occhi che bruciano. Perché quello che è stato non è. Perché la vita non è più qui ma altrove, lontano; e se volessimo, domani, veramente ritrovare l’Abruzzo, quello dolce, forte e bellissimo, che mise i suoi limpidi cieli d’aurora e di tramonto, le sue montagne impassibili e le sue sconfinate marine intorno al primo fiorire della nostra giovinezza, dovremmo forse guardarci soprattutto nel cuore…”.

Parecchi anni dopo, nel 1957, testimone della nostra marineria è stato il bel film “Noi dell’oceano” (ideato da Giorgio Ferroni, regista Giovanni Roccardi, voce fuori campo di Vittorio G. Rossi, scrittore e navigatore). Girato da una troupe imbarcata sulla Genepesca 1^ per documentare la pesca del merluzzo nel Nord Atlantico, e uscito nelle sale con il titolo “L’Oceano ci chiama”, immortalò tanti pescatori rosetani costretti ad emigrare quando i modesti ricavi non riuscivano a coprire nemmeno le spese. Riguardo poi agli imbarchi sulle navi, i nostri marinai sono stati di esempio in pace e in guerra, ed hanno sempre dimostrato la loro operosità e la loro abnegazione.

Sullo stesso tema, il monumento in bronzo ai “Caduti del Mare”, scolpito nel 1998 dall’amico prof. Daniele Guerrieri, pittore e scultore originario di Castelli, che vive a Roseto da molti anni, vuole perpetuare la memoria di tanti nostri avi che nel mare hanno sacrificato la loro esistenza.

Successivamente, quando quell’unico ricordo della nostra tradizione marinara venne letteralmente rimosso, ritenni doveroso, in quanto figlio di marinaio decorato a seguito di affondamenti e naufragi, scrivere un articolo, “L’esproprio della Memoria”, pubblicato sul n° 3/4 2005 di Piccola Città. E voglio riportarlo qui di seguito affinchè nessuno possa dire di non sapere:

“C’era una volta un monumento dedicato ai Caduti del Mare, lì davanti al pontile, e l’artista che lo aveva realizzato era riuscito a dargli il dono della parola. Raccontava, il monumento, il nostro passato e parlava di naufragi e di lutti, di madri e di vedove vestite sempre di nero, di orfani che ancora imberbi ripercorrevano la strada dei padri, di lontananza dagli affetti quando la penuria del pescato costringeva ad emigrare presso altri mari, di famiglie povere e nel contempo dignitose ed oneste,... Con malcelata commozione ripeteva ogni volta la storia dell’emblema della marineria rosetana, il mitico Titone che sfidava da solo il mare, e di quando il mare, per averlo alla sua corte, architettò la tempesta perfetta e si scatenarono tutti gli elementi.

E continuava facendo rivivere lo scenario della folla assiepata sulla spiaggia a contare le vele, che come farfalle impaurite vagavano tra le onde impazzite.

Purtroppo, l’anno scorso, qualcuno dell’Amministrazione comunale ha avuto l’infelice idea di intitolare ai Caduti delle Forze dell’Ordine quella piazza in cui il monumento rappresentava un segno tangibile di identità e di appartenenza. Certo anche loro avevano il diritto di essere ricordati, ma si poteva e si doveva trovare un sito diverso, scelto anch’esso per onorare degnamente il sacrificio della vita nell’adempimento del proprio dovere. Naturalmente il tapino non sapeva nulla di toponomastica. Non sapeva nemmeno che la dedica ai Caduti del Mare era considerata da tutti i rosetani il toponimo del luogo, e quindi quel cimelio doveva essere rispettato in quanto testimonianza inconfutabile delle radici e delle vicende accadute.

Tanto per fare un esempio calzante, sarebbe altrettanto disdicevole intitolare a Giuseppe Garibaldi una piazza con al centro la statua di Giuseppe Mazzini (e ritengo che in nessun paese del mondo possa succedere un fatto del genere). Da quel giorno il monumento non ha più parlato, e tocca adesso ai discendenti della gente di mare, che hanno nel loro DNA tracce di acqua salmastra, ricordare e raccontare la storia di Roseto, comprensiva di questo capitolo, in modo da non farne mai perdere la memoria.

E’ pur vero che il Salvatore disse: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno, ma perdonare non significa affatto dimenticare, altrimenti il futuro del nostro paese, espropriato del suo passato, sarà soltanto un anonimo futuro”.

Franco Sbrolla

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