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venerdì 29 luglio 2011

Bindi: "chi ha sbagliato deve essere cacciato"

Da LA STAMPA di oggi si legge l´articolo che allego nel post. Quelle del titolo le parole di Rosy Bindi che non dovrebbero essere parole da titolo di giornale ma la normalitá, in un posto sano, coerente, trasparente.
E invece cosí non é!


Grazie di cuore!
Luca



Nel Pd monta la preoccupazione, Bersani lancia una sfida sulla trasparenza

Preoccupazione. Il giorno dopo la sparata di Bersani contro la «macchina del fango», nelle file del Pd di ogni ordine e grado, con tutte le prudenze del caso e al netto delle dovute presunzioni di innocenza, il sentimento dominante è questo. Anche se espresso con sfumature diverse a seconda delle responsabilità e correnti di provenienza. Se già da giorni, prima delle reazioni del segretario con le lettere al Corriere e al Fatto, i pezzi forti della minoranza interna sostenevano che «queste inchieste sembrano una cosa seria», la lettura dei giornali di ieri non ha fatto che aumentare questa sensazione giù per li rami.

In un Transatlantico deserto, un dirigente democratico di stanza a Milano per anni, non certo ascrivibile tra gli avversari interni di Bersani, si pone ad alta voce una serie di domande che frullano nella testa di molti, a patto di non essere citato. E sono quesiti che vale la pena riportare perché rendono bene il clima di nervosismo e la paura che serpeggia tra i Democrats: «Se i giudici fanno uscire queste cose a puntate, vuol dire che hanno in mano ben altro? E perché non sono già partite querele per diffamazione a chi sostiene di aver versato tangenti?». Ecco, se poi si passa alle truppe ex prodiane, oltre all’ammonimento sibillino del Professore, «non c’è paese moderno che non si fondi sull’etica», ci sono i suoi adepti che non fanno mistero di temere che sia stato scoperchiato un sistema.

«C’è da augurarsi che le inchieste abbiano toccato un tramezzo e non un pilastro della casa, che altrimenti rischia di crollare», sospira il deputato Mario Barbi. Timori analoghi a quelli del politologo Salvatore Vassallo, il veltroniano che scrisse lo statuto del Pd, preoccupato che «col passare dei giorni la vicenda cresca ancora più di così». Ma poi ci sono pure i silenzi che pesano, come quello del «rottamatore» Matteo Renzi e del presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti, entrambi accomunati dalla ferrea volontà di restare fuori dal frullatore, evitando commenti di sorta.

Il primo perché, come spiegano i suoi uomini, «non ci pensa proprio ad attaccare Bersani su questo terreno, se non altro per la sua formazione garantista» e poi perché nella rossa Firenze «non arrivano segnali d’allarme che possa esplodere una sorta di megatangentopoli del Pd». Quindi calma e gesso, anche perché i segnali che arrivano dai sondaggisti sono discordanti: alcuni, come quello diffuso dal tg di Mentana lunedì scorso, parlano di un Pd in testa sul Pdl, ma in calo di quasi un punto nell’ultima settimana.

Altri, come quello dell’istituto Tecnè di ieri sera, lo danno al 29,5% con il Pdl al 26,5. E per non disperdere questo patrimonio di consensi virtuali c’è chi come Rosy Bindi lancia anatemi del tipo «chi sbaglia deve essere cacciato dal partito», consegnato in un’intervista all’Espresso. O D’Alema, che sottolinea come «Bersani ha ragione a difendere il nostro partito, non dai giudici che fanno il loro dovere ma dalla strumentalizzazione dei giornali del premier». In tutto questo, pressato da Di Pietro «a rispondere sui fatti senza buttarla in politica», Bersani si concentra sulla crisi dei mercati ma lancia una campagna «sulla sobrietà e la trasparenza della vita politica».

Proponendo una drastica riduzione del numero dei parlamentari, la riforma della legge elettorale per restituire ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti, rigide norme sull’incompatibilità. E una legge che vincoli il finanziamento pubblico ai partiti al rispetto di procedure democratiche interne e alla trasparenza dei bilanci. Ma si becca anche una ramanzina del sindaco di Parma Vignali, che ieri Bersani proprio dal palco della città ducale aveva invitato a dimettersi per l’inchiesta «Green money» che vede coinvolti tre suoi collaboratori: «Anche un suo stretto collaboratore è indagato per un pesante giro di tangenti. Io no e quindi la mia posizione è simile alla sua».




CARLO BERTINI
(fonte: LA STAMPA del 29 luglio 2011)



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