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venerdì 18 marzo 2011

Trapattoni: Bearzot il Garibaldi del calcio

Questo articolo di Fabio Monti tocca alcuni punti, per me, molto importanti e offre uno spunto di riflessione per gli sportivi, per i non sportivi, per i piú giovani e per i meno giovani. Mi piacciono, particolarmente, alcuni passaggi che ho evidenziato in grassetto; su tutto, poi, ci sono i 5 punti fondamentali che sintetizzano una vita vissuta intensamente per se stessi e che possa aiutare altri con l´esempio dell´entusiasmo, del coraggio, della voglia di fare e di crescere, dei valori alla base.
Buona lettura.

Grazie di cuore!
Luca

(fonte: Corriere della Sera del 16 marzo 2011)
I 72 anni compiuti in contemporanea alla festa dell'Unità: il futuro? Valori e coraggio. L'Italia offre un'immagine doppia: genialità ma troppa flessibilità sulle regole. Forse il vero Cavour del pallone fu Fulvio Bernardini, un anticipatore.

MILANO - Giovanni Trapattoni è nato a Cusano Milanino il 17 marzo 1939. La sua è la storia di un italiano che ha avuto fortuna nella vita, ma che non ha ancora finito di vivere sulle barricate, «perché non bisogna mai smettere di lottare» e, nonostante stia per compiere 72 anni, non ha nessuna intenzione di andare in pensione, perché «non mi interessa quello che ho fatto, ma quello che riuscirò a costruire. Dice il filosofo: la forza dell'uomo è nel futuro». Grazie al pallone, è diventato popolare in tutto il mondo. Le vittorie (22 trofei in carriera), la faccia simpatica, la correttezza, non soltanto nei modi ma anche nei fatti, non bastano a spiegare perché sia così amato dalla gente. La sua qualità è la capacità di farsi capire in ogni angolo del mondo, perché, come diceva Arrigo Sacchi, «non ha bisogno del traduttore nemmeno se tiene una conferenza a Tokyo o Pechino». È un emigrante di lusso, contento di essere italiano, ma senza nostalgia. La prima esperienza lontano da noi è stata al Bayern Monaco, in due tappe nel '94-'95 e dal '96 al '98. Poi due anni a Firenze, quattro da c.t. della nazionale e nel luglio 2004 l'addio definitivo all'Italia: un anno al Benfica, sei mesi allo Stoccarda, due stagioni al Salisburgo e dal maggio 2008 è il c.t. dell'Irlanda (era scritto nel suo destino, visto che è nato il giorno di san Patrizio). Si è divertito, ha vinto e ha divertito. Che idea hanno all'estero degli italiani? Trapattoni riassume così: «Quella che offriamo è un'immagine doppia. C'è quella positiva, perché il mondo ci guarda con ammirazione. Tutti riconoscono la bellezza straordinaria del nostro Paese, ma pure la capacità degli italiani di essere geniali, intelligenti, creativi. Anche nel calcio. Il made in Italy non è uno slogan, ma una realtà consolidata. Però siamo considerati un Paese propenso alla flessibilità delle regole e dei comportamenti, mentre soprattutto al Nord, dove ho lavorato di più, il rispetto delle regole è fondamentale». Trapattoni ha attraversato una bella fetta di storia d'Italia, la guerra quando era un bambino, la ricostruzione, il boom, le profonde trasformazioni degli ultimi quarant'anni: «Non credo che il passato fosse migliore. Di certo, dopo la guerra, c'era la volontà comune di ripartire, c'era l'idea di un percorso chiaro da coprire: lo studio, poi il lavoro, la ricerca di una posizione sociale, la voglia di migliorarsi, il desiderio di fare qualcosa per stare meglio. Non credo che quella fosse un'Italia più bella, ma erano più chiari gli obiettivi. Ad esempio, per uno che cominciava a giocare a calcio, l'unica preoccupazione era quella di arrivare ad avere un posto da titolare. Non c'era tutto il contorno di oggi. Quando mi sono trovato ad esordire in serie A con il Milan in casa della Spal nel '60, avevo un po' di febbre, ma l'ho tenuta nascosta, perché non volevo perdere il treno che mi stava aspettando. Non sapevo se sarebbe ripassato. Però io non sono favorevole alla retorica del passato. Ne parlavo spesso con l'avvocato Agnelli: parlare sempre di quello che era ieri non serve; quello che conta è il futuro. L'importante è essere seri e non perdersi per strada. Se adesso il mondo corre a doppia velocità, bisogna adeguarsi e cambiare passo. Lottare contro internet non serve, meglio sfruttare i vantaggi che offre. Così come è inutile rimpiangere il calcio di una volta. Se adesso non si giocano più tutte le partite alle tre del pomeriggio, perché le televisioni hanno altre esigenze e pagano molti soldi, non è grave. Conta avere entusiasmo, coraggio, voglia di fare e di crescere. E ricordarsi sempre che il pallone è pieno d'aria, dunque bisogna evitare che si sgonfi. Vivere sulle nuvole è pericoloso, perché chi vola troppo in alto fa la fine di Icaro». Quella che Trapattoni proprio non ha è la nostalgia per l'Italia del pallone, anche se la sua base di vita è sempre a Cusano Milanino: «Molti anni fa un'astrologa mi aveva detto: lei lavorerà all'estero. Io non ci credevo, perché ero molto attaccato al nostro calcio. Invece aveva ragione lei. È successo e sono contento che sia andata così. Ho avuto qualche proposta per rientrare, ma non sono voluto tornare, perché qui il pallone è a livelli paranoici: allenatori che saltano per un gol preso al 90', magari su rigore; presidenti che pensano soltanto a vincere; nessuna volontà di costruire qualcosa che possa resistere. Il ritorno a casa, al momento, non è nei programmi. E non voglio sembrare quello della volpe e l'uva. All'estero c'è una capacità di giudizio meno emotiva, più attenta alla sostanza che alle apparenze». In 55 anni di calcio Trapattoni ha conosciuto centinaia di personaggi. Il Garibaldi del calcio? «Direi Enzo Bearzot. Uno che con un gruppo di fedelissimi, come i mille di Garibaldi, ha unito l'Italia, vincendo il Mondiale dell'82, quando nessuno ci credeva». E il Cavour del pallone? «Potrei dire Gipo Viani o Nereo Rocco, ma forse il vero Cavour è stato Fulvio Bernardini, per la sua capacità di essere in anticipo sui tempi, geniale in alcune intuizioni e aperto al futuro». Essendo un allenatore e non un predicatore (o un profeta), Trapattoni non ha messaggi speciali da diffondere: «Dobbiamo far riflettere i giovani sulle difficoltà della vita ma stando al loro passo, con esempi che fanno parte della contemporaneità e senza trasformarci in censori. È bello vivere bene e avere molte cose, ma non è necessario possedere tre cellulari e cinque televisori. Conta capire bene quali sono i valori che contano. Quello che conta è lavorare divertendosi. Io mi alzo presto, guardo le partite, studio situazioni e avversari e quando serve faccio anche il giardiniere a casa. Non per risparmiare, ma perché mi sento giovane e perché dobbiamo essere sempre attivi. Diceva Rocco: non conta la carta d'identità, conta la testa».
Fabio Monti

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