In un libro appena edito dalla Bocconi, «Classe dirigente - L’intreccio tra business e politica», Antonio Merlo della Pennsylvania University ha confrontato la retribuzione dei parlamentari italiani e americani. Scoprendo che durante la Prima Repubblica i nostri «risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi» ma dal ’94 capita il contrario grazie a un aumento dal 1948 al 2006 del 9,9% l’anno. Performance strepitosa. Non accompagnata, però, da un parallelo impegno sui banchi. Ieri mattina, a «Radio24», il senatore leghista Sandro Mazzatorta ha spiegato che occorre «sfatare alcuni luoghi comuni. Si è parlato di un parlamento che lavora poco. Noi saremo un’eccezione ma arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua». Giudichino i lettori. Dicono: ma ci sono commissioni, missioni, mille altre attività... Anche in America.
Ma il senato Usa si riunisce in assemblea 180 giorni l’anno. Il nostro, nel 2009, 114. Mai (mai) di lunedì, due volte (due!) di venerdì. Toccando in aprile il record: 7 ore d’aula. Quanto alle presenze, da decenni il tasso d’assenteismo medio d’un senatore yankee è del 3,1%, dei nostri il decuplo. Insomma, un taglio alla busta paga dei parlamentari e dei grandi manager «prima » che il governo tocchi gli stipendi e le pensioni degli italiani non è solo opportuno: è obbligatorio. Su un punto, però, quanti strillano contro «le sparate demagogiche » hanno ragione: non sarà quel taglio, per quanto sensibile, a risanare le casse. È doveroso, non risolutivo. È sul costo della politica e del suo indotto che si gioca la partita vera.
È normale, in questi tempi di vacche magre, che la Camera continui a costare un miliardo? Che il Senato abbia 11 palazzi più magazzini per un totale di 9 ettari e abbia assunto 35 nuovi commessi per rimpiazzare colleghi andati in pensione poco più che cinquantenni 15 anni dopo la riforma Dini? Che un presidente regionale guadagni fino a 175 mila euro netti contro una media dei governatori Usa di 88.523 lordi? Che i partiti ricevano fino a 300 milioni di rimborsi elettorali l’anno anche negli anni senza elezioni? Che si rastrellino voti distribuendo posti e consulenze e appalti messi in carico alla collettività? Che i costi dei voli blu siano segreti oggi inespugnabili?
Per questo, mentre Cameron a Londra insiste per rinunciare perfino alla scorta, la trasparenza «vera » dei bilanci, che spesso sembrano studiati per nascondere invece che spiegare ai cittadini come vengono spesi i soldi, sarebbe il segnale giusto... Ricorda ironico Tito Boeri che nel film «La classe dirigente» Peter O’Toole solleva un tavolo con la sola forza del pensiero e «non ci aspettiamo certo miracoli del genere». La trasparenza sì, però, ce l’aspettiamo. La trasparenza sì.
Gian Antonio Stella(Fonte: Corriere della Sera del 21 maggio 2010)
Segnalo un commento molto curioso che si collega all'argomento... http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/05/26/sondrio-forever/
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